UFC, il caso Rohskopf: il coach non si pente, l’avversario lo critica. Chi ha ragione?

UFC, il caso Rohskopf: il coach non si pente, l’avversario lo critica. Chi ha ragione?

23 Giugno 2020 1 Di Redazione

UFC – Cosa è successo nella Fight Night UFC di sabato scorso oltre alla accanita battaglia tra Josh Emmett e Shane Burgos, e la prestazione dominante di Curtis Blaydes su un impotente Alexander Volkov?

All’interno della preliminary card, esattamente nel primo incontro tra Austin Hubbard e Max Rohskopf, si è verificata una situazione su cui vale la pena indagare, dove sono emerse alcune accuse controverse, dichiarazioni e circostanze spinose interne alle Arti Marziali Miste.

Max Rohskopf (5-1 MMA, 0-1 UFC), un giovane prospect imbattuto della categoria dei leggeri, andava affrontando, con soli 5 giorni di preavviso, Austin Hubbard, un solido fighter con all’attivo già 4 incontri in UFC e un record totale di 12 vittorie e 4 sconfitte. Il match parte discretamente per il ragazzo esordiente che probabilmente porta a casa il primo round, ma nel secondo le cose si ribaltano, ed Hubbard dimostra di saperlo dominare cercando anche di chiudere il match con colpi molti forti.

Nel minuto di pausa tra secondo e terzo round, il malconcio Max Rohskopf, chiede volontariamente di far fermare l’incontro più di 10 volte, e il suo cornerman Robert Drysdale cerca di convincerlo a continuare, spronandolo a riprendersi e a conquistare la vittoria. Il ragazzo si alza fragilmente in piedi, ma l’attento arbitro Mark Smith nota la situazione, chiama il timeout e, sinceratosi con lui della convinzione di non voler combattere, chiude definitivamente il match.

Il coach Drysdale afferma:

Non mi pento di ciò che ho fatto, non era fisicamente infortunato, è un mio obbligo quello di sostenere mentalmente i miei atleti, cosa che faccio ogni giorno in palestra, non volevo che si arrendesse, volevo il meglio per lui, ho fatto quello che avrei voluto facesse il mio coach personale. Max, è pronto per l’UFC ma ha spinto troppo nel primo round, ha ceduto di cardio e questo lo ha fatto crollare mentalmente”.

È chiaro che il cornerman aveva l’intenzione di fargli ritrovare la forza mentale che lo spingesse a recuperare quella fisica, ma di fronte a quelle continue esternazioni di rifiuto a combattere, non si è tirato indietro e ha insistito affinché il suo atleta non si arrendesse, cosa che gli procurato forti critiche dai giornalisti e altre persone dell’establishment UFC, una vera pioggia di critiche e insulti per lui.

Dal canto suo l’avversario Austin Hubbard aveva notato quanto il ragazzo fosse acerbo e in un’intervista dichiara:

“Ne sono rimasto sorpreso, lo avevo colpito duro, ma le incassava bene, a un certo punto avevo visto che stava per mollare ed ero pronto a finirlo in quel terzo round, non sarebbe riuscito a resistere fino alla fine, in ogni caso, al posto suo, avrei fatto quello che gli diceva il coach, non puoi andare contro il coach per nessun motivo”.

Si sono levate molte voci e dichiarazioni tra cui quella del manager di Rohskopf, che minimizza argomentando la motivazione del ritiro per la fatica e un problema all’alluce, ma soprattutto quella della Commissione atletica del Nevada (NSAC), che ha deciso di investigare:

“Dobbiamo rivedere la dinamica degli eventi e prenderemo un’azione disciplinare perché non sembra affatto che si stiano preoccupando del ragazzo, era chiaro che non voleva proprio combattere”.

Di conseguenza irrompe come un rinoceronte il boss Dana White:

Nessuno si può permettere di giudicare il ragazzo, era sfinito e doveva avere la possibilità di tirarsi fuori, non deve vergognarsene, anzi ha avuto le palle di accettare l’incontro con così poco preavviso, chi lo ridicolizza dovrebbe provare a entrare nell’ottagono, poi vediamo…”

Detto questo ci si chiede, caro Dana, ma perché adesso ti stai rivolgendo a presunte persone che hanno giudicato il ragazzo? E anche quella storia personale (raccontata nel post fight) nella quale anche tu combattevi ma poi hai mollato, che cosa c’entra?

Beh, sembra evidente che l’imprenditore statunitense abbia l’intenzione di spostare l’attenzione dei media e del pubblico, ben fuori dalle critiche e dalle indagini che partiranno a breve, e non lo sta facendo a caso, è il tipico bias “fantoccio” con il quale si sostituisce un argomento con un altro in apparenza simile, allo scopo di non affrontare quello spinoso che, messo da parte, perde d’importanza.

È una situazione delicata quella che si è creata pochi giorni fa, con un ragazzo che forse era veramente troppo green e debole mentalmente per approcciarsi a una realtà così dura, e dall’altra parte un coach che come tanti, ha spinto troppo forte senza rendersi conto di quello che stava succedendo; poi un manager (quello del ragazzo) che sgonfia con un tweet quanto accaduto, critiche e haters dietro ogni angolo e il signore della promotion che si mette a parlare di tutt’altro per sganciarsi dalla situazione.

Tutti hanno detto la loro ma quel che si è perso di vista è il dare importanza alla sicurezza nell’ottagono, specialmente dopo le agitazioni sorte con il match tra Anthony Smith e Glover Texeira, quando forse l’angolo di Lionheart poteva intervenire tempestivamente, oppure il main event di 2 settimane fa dove Amanda Nunes ha letteralmente fracassato Felicia Spencer per 25 minuti, quando anche qua forse si doveva stoppare l’incontro.

Precisando che gli incontri di MMA non sono esibizioni di danza classica, ci vuole più attenzione, più cura, sia da parte degli allenatori, che dei manager, degli arbitri, di chi parla a vanvera, ma in particolar modo dell’industria sportiva quale UFC è. Insomma ancora più attenzione di quella che già c’è.

Menzione d’onore all’arbitro che ha sentito, ma principalmente ha saputo leggere una situazione complessa e difficile, e senza stare lì a tentennare ha preso la sua decisione: the fight is over.