UFC, Smith racconta: “Quella notte ho combattuto per difendere la mia famiglia”

UFC, Smith racconta: “Quella notte ho combattuto per difendere la mia famiglia”

28 Agosto 2020 0 Di Redazione

UFC – Questa che stiamo per raccontare è una storia che ha veramente dell’assurdo. Si parlerà dell’intrusione notturna in casa, subita da Anthony Smith qualche mese fa, poco prima dell’incontro con Glover Texeira in UFC Fight Night 171. Un match nel quale si è visto il lottatore americano un po’ opaco, incapace di reagire, probabilmente ancora traumatizzato dall’evento che vi stiamo per narrare.

Quante volte ci siamo fatti la domanda:

“Nella vita civile, come reagirebbe un fighter professionista di fronte a un’aggressione o a un intrufolamento notturno dentro casa?”.

Beh, la risposta sembrerebbe semplice, saprebbe gestire la situazione in maniera egregia, non avrebbe paura, di certo con l’esperienza che ha non si troverebbe mai in difficoltà, ma non è questo il caso.

Anzi, in realtà non lo è mai, perché spesso ci dimentichiamo che anche i fighter, che vediamo ogni fine settimana combattere all’ultimo sangue, sono degli esseri umani, con ansie, paure e timori, persone che come noi possono rimanere colte alla sprovvista da un evento inaspettato.

Partiamo dall’inizio. Era una sera dei primi di aprile di quest’anno in Nebraska e Anthony Smith è a casa e ha cucinato la cena per la sua famiglia, composta da moglie, due bambini e suocera. Dopo aver fumato un bel sigaro, va in garage, prende una boccata d’aria e sbadigliando si accinge a raggiungere la camera da letto.

Ore 4 del mattino. La moglie lo sveglia perché sente delle urla provenienti dall’interno della casa, e lui, senza nemmeno pensare all’arma da fuoco stipata in una borsa, va a vedere cosa sta succedendo. La camera studiolo dalla quale si sente urlare è a pochi metri da lui che in quell’istante è terrorizzato.

Vede una figura che prende fiato e urla, che si flette verso di lui con una strana postura allo scopo di impaurirlo, che lentamente si avvicina. Smith è freezato, si aspetta che questa persona tirerà fuori un’arma e lo ucciderà. Si affaccia anche la moglie per bloccare l’accesso al corridoio che porta alla camera dei bambini, e Anthony decide che è questo il momento giusto per intercettarlo.

Si scontrano in pieno wrestling, riesce a travolgerlo, lo lancia verso la scrivania del computer e, per così dire, porta il combattimento a terra. Il ragazzo urlatore sembra essere giovane, una ventina d’anni, non grosso circa 75 kg, soprattutto se consideriamo che Smith ne fa 93 sulla bilancia, quasi 100 nell’ottagono, più di 100 durante il training camp.

Citando letteralmente il fighter UFC, “He was superstrong”, non riusciva a fermarlo, il tipo combatteva come un animale, chiedeva l’aiuto di un certo Luke, quindi cala l’orrore, cioè aleggia l’idea che ci sia un altro intruso. Nel frattempo il 911 è stato chiamato dalla moglie che ha messo al riparo i bambini, mentre la suocera di Smith, che lui stesso definisce una gangster, gli porta un coltello cosicché, qualora ci fosse stato uno scagnozzo, avrebbe potuto pugnalare la scimmia urlatrice e concentrarsi sull’altro. È un pandemonio.

Il combattimento continua per 6 minuti, Smith capisce che deve usare tutte le skill che ha, gli tira addosso pugni, ginocchiate, gomitate, nei momenti più opportuni e con la massima forza possibile, ma il giovane incassa, sempre più agitato e inferocito. “The toughest fight of my life”, così Lionheart descrive quel momento, stava ormai per esaurire le forze, peggio del match con Jon Jones o Gustafsson. La camera studio è un casino, sangue dappertutto, arriva la polizia, l’ambulanza, anche i pompieri. “It’s just a disaster” così apostrofa quell’istante.

Il povero ragazzo aveva problemi mentali, era imbottito di psicofarmaci, una storia alle spalle di violenze domestiche, e tuttavia anche delle considerevoli competenze nel wrestling acquisite durante il periodo passato al liceo. Quella sera aveva perso la testa, era andato per le case del quartiere a fare danni, fino a che aveva trovato aperta la porta del garage della residenza di Anthony. Il giovane affermerà successivamente che credeva di stare in casa propria e dunque combatteva per difendere il suo territorio.

La famiglia di Smith rimane traumatizzata, sia i bambini che i genitori non dormono, tutti sentono rumori sospetti in ogni momento e Smith stesso ha la preoccupazione ogni qualvolta esce e li lascia da soli. È chiaro che ci vorrà tempo per assorbire il colpo, la paura che possa risuccedere e che non ci sia nessuno capace di intervenire in tempo e bene.

Circa 20 giorni dopo questo evento, Lionheart si trova in Florida per la Fight Night. Già alla cerimonia del peso, è evidente un’espressione facciale turbata, quasi preoccupata, un viso scuro. Gli dicono di sorridere e, raggiunto il giusto peso, alza, contrae i bicipiti, e mostra un sorriso “di recupero”, composto da tanti denti, alcuni dei quali salteranno il giorno seguente, a colpi di badile grazie a un rispolverato Texeira.

Ci si chiede come sia possibile che un lottatore tra i migliori al mondo, al 6° posto nella categoria dei massimi leggeri UFC, possa essersi trovato in estrema difficoltà in una situazione come quella. Ce lo spiega direttamente Smith:

“Il problema è che non ci si aspetta una cosa del genere, non si ha una strategia, si è solo pronti a morire ed entrambi lo eravamo. Per quanto possa pensare di essere un badass, mi sono sentito impotente, e fortuna che avevo l’esperienza di combattimento che ha fatto la differenza, perchè non sarei durato a lungo”.

A fine intervista Anthony è sollevato, raccontare questa storia è stato importante, si è tolto un peso dal petto. Dice anche una cosa sorprendente, è contento che, al di là di tutto, questa cosa fosse successa a lui e non ad altri, gente che probabilmente non poteva avere i mezzi per reagire, come i vicini anziani o il ragazzo superunhealthy dirimpettaio. Il folle era entrato nella casa giusta.

Adesso son passati quasi 5 mesi e Lionheart lascia la sua famiglia, prende l’aereo che dal centro degli USA lo porterà a Las Vegas, quasi a ridosso della West Coast, accingendosi a intraprendere un’altra battaglia con un avversario difficile come il serbo-austriaco Aleksandar Rakic.

Una sfida diversa, un uomo nuovo, lo stesso Anthony Smith con il suo cuor di leone e le spalle larghe di chi combatte per lavoro, anche se a lui è capitato di farlo per difendere la sua famiglia. Nel suo piccolo è stato un eroe, come probabilmente lo sarebbero stati tanti altri padri.

Ormai si vedono tanti film di supereroi, pensiamo che in realtà non esistano, tuttavia stanno qua, vicino a noi, senza far piroette, correre tra i palazzi o lanciare onde energetiche. Sono invisibili e siamo abituati a non crederci più.

Questo è sbagliato e non si tratta di tornare a essere bambini, bensì nel ricordarsi una semplice cosa, anzi nell’imprimersela bene a mente, cioè che se si smette di credere agli eroi, anche l’eroe dentro di noi muore.